Ol nost dialet

La maschera di Gioppino vanta il suo carattere autoctono e la sua fedeltà al vernacolo natìo.

Se è vero, secondo quanto scrisse l’abate Stoppani, che il vernacolo bergamasco è «un’eco lontana della lingua di Roma e degli idiomi dei più antichi popoli italici», è anche vero che la sua intrinseca durezza (dovuta soprattutto alla prevalenza dei suoni stretti ed alla presenza delle vocali o e u, proprie dei dialetti piemontesi, liguri e lombardi) ne fa uno dei dialetti meno vicini alla lingua nazionale ed apparentemente meno comprensibili.
Dante aveva deplorato l’abbondanza di vocaboli tronchi nelle parlate dei milanesi e dei bergamaschi; ciononostante, nel “Dialogo” (1587) di Arrigo Stefano il dialetto bergamasco è reputato più bello del fiorentino e inferiore soltanto al veneziano.
Di origine celtica, il nostro vernacolo, formatosi durante il regno longobardo, era già intorno all’anno 1000 un idioma compiuto e non dissimile da quello attuale; consolidatosi nel periodo comunale, esso subì poi notevoli influenze venete pur conservando una sua fisionomia ben definita. Vanta cultori illustri e profondi, dall’umanista Gasparino Barzizza, autore di un lessico bergamasco, e dal seicentesco Carlo Assonica, che tradusse la “Gerusalemme Liberata”, agli ottocenteschi Gabriele Rosa ed Elia Zerbini, studiosi di tradizioni locali, dallo Zappettini e dal Tiraboschi, che nel secolo scorso compilarono due vocabolari, al contemporaneo Vittorio Mora, che nel 1966 ha pubblicato una preziosa grammatica del dialetto della città di Bergamo. Come tutti i dialetti europei, anche il linguaggio di Gioppino va progressivamente dissolvendosi; con la sua scomparsa tutto un patrimonio di cultura e di umanità è destinato a disperdersi, perché la morte di una lingua segna sempre la fine di una civiltà.
In una magistrale pagina della sua “Muffa di provincia” (1965) Vittorio Polli ha scritto: «Si nasce con un dialetto in bocca. È il dialetto della propria origine, coi suoni e le inflessioni della voce giusti, tipici, determinanti: simili al profilo della propria terra, coi motivi cantati di una regione. Il dialetto sta in bocca come un buon sapore, come l’acqua delle fontane, oppure come una musica conosciuta; si possono dimenticare le lingue imparate ma il dialetto resta nei fondo della gola coi suoi speciali suoni, i gorghi, gli arresti e i canti. Il nostro è uno dei più ostici all’orecchio del forestiero; non assomiglia a nessuno dei linguaggi delle regioni vicine, ma assomiglia al volto della gente. Non so se le lingue vengono considerate come espressioni dirette della razza. Il mio dialetto è come un personaggio: disceso dalle strade delle nostre valli, porta con sé una gran quantità di immagini, di suoni, di similitudini che sembrano essere come i nostri boschi, gli impetuosi torrenti, le case solitarie, le preghiere cantate dell’uomo, i cori delle chiese, il grido dei selvatici; e s’annuncia coi suoni più strani, suoni e voci assai simili all’idioma tedesco o inglese. Non ha grazia all’orecchio di chi ascolta ma da sensazioni di forza; senza avere le costruzioni sintattiche involute proprie delle lingue nobili, ha una cruda immediatezza, un preciso potere di definizione. E da gusto a parlarlo, e anche ad ascoltarsi mentre lo si parla; perché trascorsi anni di vita, disciolti i suoni della voce in varie lingue, non più esercitato il dialetto, ognuno se lo ritrova in bocca come un mazzetto di erbe nostrane e lo ributta fuori con assoluta fedeltà come un ruminante».
Il dialetto è naturalezza, spontaneità, sincerità sorgiva. Una poesia di G. A. Gavazzeni dedicata al nostro vernacolo termina con questa terzina:

Giopì,
quando I’ tira ol sgarlèt :
«Signùr, a l’ dis,
perdùnem s’ó falàt»,
e I’ va so ‘n Paradìs
col so dialèt!

(da “Buonumore bergamasco” di Umberto Zanetti)

Ol nost dialetultima modifica: 2013-01-03T12:48:00+01:00da amicimura1a
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